Sogni da realizzare

Tasse
Tasse

Oggi ho realizzato uno dei miei grandi sogni: quello di essere un evasore totale. E pure legalmente.

Ultime dalla “terra delle opportunità”: non solo lo stipendio arriva bisettimanalmente, il che mi pare un atto di pura e semplice civiltà. Ma se sei studente o straniero, arriva pure senza tasse. Un miracolo della finanza!

Già, perché gli studenti in America sono una categoria iper-tutelata. La tessera universitaria apre più porte della cantilena di Alì Babà e ti dà accesso a strutture sportive, sanitarie e culturali ma anche trasporto pubblico, luoghi d’intrattenimento (e chi più ne ha più ne metta!) generalmente gratis, o pagando una quota ridotta. Io la uso pure per gli sconti dal parrucchiere, tanto per farvi un’idea.

Quando inizi a lavorare, poi, se hai un visto di studio e un contratto di formazione, i privilegi si allargano alla sfera fiscale (ma si riducono sul versante sanitario).

Una roba impensabile per una, come me, che in vita sua è stata persino tassata sul rimborso spese perché aveva una fittizia partita IVA che mal-nascondeva un contratto di tipo prettamente impiegatizio.

Certo è che, prima di arrivare alla tanto agognata busta paga, se sei studente o straniero ne devi passare un po’ di tutti i colori. Specialmente se sei studente E straniero. Le difficoltà per ottenere un visto, un permesso di lavoro con data di scadenza o il Social Security Number sono “zucchero” in confronto alla frustrazione nel sentirsi dire: “Mi dispiace ma non siamo interessati a lei, perché non è cittadino americano“.

Ma quella, ormai, è storia passata. Intanto, risorta come un’Araba Fenice, affronto un nuovo capitolo e mi godo questo dolce privilegio, conquistato incredibilmente senza “conoscenze” o raccomandazioni. Benvenuti in America.

(Parentesi. L’America non è semplicemente il Paese delle opportunità: è il Paese delle Pari Opportunità. Per lo meno millantate (forse perché non hanno la Garfagna come ministra). Ed è amaramente divertente leggere sui siti delle principali aziende multinazionali “XYY è un’azienda che promuove le pari opportunità. Si prega di NON inviare il CV se non si è cittadini americani“).

La Nemesi Divina esiste. Per lo meno in America

La Nemesi
La Nemesi

Martedì scorso non è stata solo la giornata di Obama.

È stata anche, almeno un po’, la mia giornata. Perché avevo prenotato un test su strada per prendere la patente del Massachusetts.

Più che per guidare, la patente qui assolve due macro-funzioni: ti permette di acquistare alcol nei rivenditori autorizzati (che non sono i supermercati; lì si vende al massimo la Coca Cola), e ti fa entrare in pub e discoteche.

Così un bel pomeriggio di qualche settimana fa mi dirigo alla Motorizzazione civile, a Chinatown. Un’oretta scarsa di fila e faccio il test scritto. 20 domande a scelta multipla, del tipo:

In presenza del segnale di STOP bisogna:
a)    Suonare il clacson
b)    Fare un’inversione a U
c)    Chiudere il finestrino
d)    Fermare completamente la macchina
“.

Esilarante.

Passo successivo: prenotare il test su strada per martedì 4 novembre. Al quale ti devi portare tre cose fondamentali: un modulo debitamente compilato, una macchina registrata a tuo nome (o una lettera di chi te l’ha prestata, che ti autorizzi ad usarla per il test), e uno “sponsor”. Cioè qualcuno che abbia almeno 21 anni e sia in possesso di una patente di guida americana da oltre 12 mesi. Quando l’ho raccontato al mio capo – newyorkese trasferita a Boston – mi ha risposto: “Pensavo che questo fosse un Paese più ospitale”. Ultime parole famose.

Polverizzatesi di fronte all’esaminatore della Motorizzazione di Boston più disturbato che potessero mettere su strada.

Ora, si sa che io non sia esattamente una di quelle persone a cui va tutto liscio. E si sa pure che – per qualche arcano motivo – quando fai l’esame della patente devi incontrare il tipo scontroso che in una crisi di inutilità cosmica vuole lasciare un segno nel mondo, il che inspiegabilmente si traduce nel grugnire all’autista di turno. Ma l’esaminatore Numero 23 – oddio, non è che fosse un alieno? – ha fatto molto di più. Nel dettaglio, ha cominciato col rifiutarsi di prendere in mano il modulo di domanda che avevo portato; ha continuato mettendo in discussione la mia capacità di piegare il gomito a 90 gradi (per dimostrare il segnale a mano di stop, utilissimo), ha proseguito lamentandosi che non gli davo mai ragione (e, che ci crediate o no, non è la prima volta che mi capita…con un istruttore di guida!); e in un crescendo da opera lirica ha finito urlandomi che non potevo toccarlo, scendendo dalla macchina di corsa e lasciandomi in mezzo alla strada con il mio modulo e senza patente.

Ah, ha anche avuto una piccola crisi alzando e abbassando tutti i finestrini della macchina e prendendomi un po’ in giro per essere italiana. Ma questo, diciamoci la verità, ci può quasi stare.

“Quasi”. Invece ho scaricato dal sito della Motorizzazione il decalogo dei diritti del consumatore e, in un’e-mail, ho dimostrato punto per punto che Numero 23 me li aveva negati tutti. Con una minuzia da avvocato inacidito che generalmente mi trasuda dai pori, in queste occasioni.

Mi sono gasata neanche fossi Perry Mason, per scoprire che l’America è davvero il Paese delle opportunità. Perché dopo meno di 12 ore ricevo una risposta dal Superiore del Numero 23, che mi chiede scusa, ribadisce che la Motorizzazione non ammette discriminazioni, “non importa la razza o il colore“, e mi offre un test V.I.P.: gratis, senza prenotazione e con tanti sorrisi e complimenti.

E siccome le opportunità sono infinite, non solo oggi ho preso la patente del Massachusetts. Ma quando sono entrata nell’ufficio della Motorizzazione, per ritirare la mia licenza, ho trovato il “povero” Numero 23 declassato a staccare i biglietti per le persone in fila. E oltre a toccare i tagliandini di carta doveva passarli in mano a tutti.

Insomma. c’è davvero una giustizia divina e compensatrice. Per lo meno in America!

Ma che freddo fa

Io e my Mr Big siamo senza riscaldamento.

Causa: lavori in corso da metà settembre. Il tutto mentre a Boston fanno sì e no 10 gradi di massima.

Ieri mattina è passato Nunni, il tuttofare del palazzo. Ci ha lasciato una specie di termoventilatore elettrico che, quando diventa incandescente, proietta una luce stile caminetto in chalet di montagna. Forse io e my Mr Big potremmo approfittare dell’atmosfera per farci un goccio di brandy, la sera.

Il bello è che non è la prima volta che ci capita. Di stare senza riscaldamento.

Episodio numero uno. Sarà stato febbraio o marzo scorso. Temperatura esterna tra i -15 e i -5 gradi. E tanta neve. In una tediosa e fredda domenica sera, si rompe la caldaia del palazzo.

Io e my Mr Big chiamiamo il padrone di casa – quello vecchio. Che, per la cronaca, pare fosse italiano e vivesse di strane fortune in Brasile.

Dopo un giorno di telefonate senza successo, oltre al riscaldamento, parte anche l’acqua calda. E mentre my Mr Big lavora fuori Boston, io cerco di farmi qualche doccia con la teiera dell’Ikea. Che infatti brucia parte della tendina nella vasca da bagno. Che dire, Gea, ancora troppa fiducia nella plastica!

Arriva il weekend, e ancora niente. Nel frattempo il padrone di casa ha addirittura smesso di rispondere alle nostre telefonate, mentre il resto degli inquilini pare non essersi accorto che siamo senz’acqua calda e riscaldamento. E io non voglio nemmeno pensare come fa uno a non accorgersi che manca l’acqua calda, per una settimana!

Ora, vi ricordate il servizio per la disinfestazione dai topi? Beh, il Comune di Boston offre pure un altro insolito servizio: la difesa al diritto a una temperatura “minima” dentro casa.

Io: “Pronto, il padrone di casa ci ha lasciato senza riscaldamento né acqua calda da una settimana
L’operatore: “L’avete chiamato?
Io: “Tutti i giorni. Non risponde
L’operatore: “Possiamo mandare l’ispettore…aspetti, mi faccia controllare…va bene oggi pomeriggio?

E così, ad appena tre o quattro ore di distanza dalla telefonata, l’ispettore bussa alla porta di casa mia. Una donna non molto alta, abbastanza grossa e terribilmente aggressiva. Una Robin Hood dei tempi moderni: “Multo i ricchi padroni di casa per donare ai poveri inquilini”. Me la ricordo girare per l’appartamento, con un taccuino e un termometro. Mi ha quasi rotto la porta dell’armadio a muro – per farmi notare che il padrone di casa avrebbe dovuto ripararla. Dopo una mezz’oretta mi fa vedere una lista che sembra un ultimatum di guerra. 48 ore per riparare la caldaia, una settimana per una sfilza di altre “irregolarità”: infissi, armadi a muro, crepe sul soffitto e sui muri…

E poi mi chiede se voglio fare causa al padrone di casa. Ma è ovvio: l’America è l’Eldorado degli avvocati!

Nonostante io e my Mr Big rinunciamo alla causa, il padrone di casa – che non deve aver apprezzato la multa dell’ispettore – si rifà vivo in una e-mail patetica dall’incipit: “Nessuno mi ha mai fatto questo prima”. E ci minaccia di portare via i mobili della cucina quando io e my Mr Big siamo fuori casa.

Qualche mese fa l’ispettore mi ha telefonato per sapere se andava tutto bene, con il riscaldamento e le riparazioni. Mi sono commossa dall’efficienza.

Quasi quasi la richiamo, domani. Giusto per sapere se vuole passare a trovarmi un’altra volta.

Burocrazia canaglia

Finalmente stamattina ho varcato la soglia del tanto agognato Social Security Administration office di Boston. E ho presentato domanda per il Social Security Number.

Praticamente, insieme al Visto, il Numero e’ la chiave che apre tutte le porte. Ma proprio tutte. Sono almeno 9 mesi che me lo sogno. In realta’ non e’ niente di piu’ del nostro codice fiscale, te lo inviano per posta ordinaria a casa e consiste di un foglietto di carta rettangolare celeste poco piu’ piccolo delle mille lire del monopoli. Con gli stessi ghirigori in blu. Ma senza il mitico Numero praticamente tu non esisti. Penso a quando potro’ fare la tessera del supermercato, comprare un telefono che non funzioni a minuti (perche’ senza il Numero non ti fanno il contratto, e infatti io sono ancora con un Nokia modello preistorico e pago sia per chiamare che per ricevere), cercare un lavoro come si deve. Soprattutto quest’ultima possibilita’ mi interessa. Per la quale, idealisticamente, mi servirebbe avere il Numero entro lunedi’ prossimo. Di solito lo assegnano in una decina di giorni, con un po’ della mia fortuna ce la posso fare.

Comunque, con tutta la mia pila di documenti entro al 10 di Causeway Street. Metal detector, super ispezione, quattro poliziotti e due cani – ma ormai non mi impressiono più, una volta ho contato tre auto, sei o sette moto e una dozzina di poliziotti che arrestavano un ragazzetto mingherlino di fronte a un centro commerciale, in pieno giorno.

Stacco il numeretto 62, e mi siedo ad aspettare. Non so perche’ questo posto mi ricorda l’ufficio postale di via Lucio Papirio, a Roma. Solo che invece delle vecchiette che ritirano la pensione, mi ritrovo a fare la fila con pluricentenari cinesi…che secondo me si passano il Numero da almeno quattro generazioni.

Numero 59, 60, 61…e, come previsto, due sportelli chiudono. Appunto.

Quando finalmente arriva il mio turno, la piu’ gioviale operatrice dell’ufficio mi accoglie al suo sportello. Prende il primo dei miei moduli, guarda il passaporto e mi imbruttisce. Non le sara’ piaciuta la foto? “Questo non mi serve”, mi dice. Cominciamo bene. Alla fine, tra tutte le carte che mi autorizzano a entrare negli Stati Uniti, restare negli Stati Uniti, studiare negli Stati Uniti, respirare negli Stati Uniti, trovo quella che fa per lei. E gentilmente glie la porgo. “Tra quanto dovrebbe arrivare?”, chiedo timidamente. Ti prego non mi dire piu’ di una settimana, ti prego, ti prego, ti prego.

La signora mi guarda e mi chiede di non parlare mentre batte al computer. Digita e mi guarda ancora. Poi mi da’ un foglio, e mi chiede di allontanarmi dallo sportello. E’ la procedura.

“Gentile Fenice di Boston,
Questa e’ la ricevuta che lei ha fatto domanda per il Numero il 26 agosto 2008.

Bla…Bla…Bla…ricevera’ il Numero tra quattro settimane.”

Quattro settimane? Appunto.